Fede e politica in una prospettiva carismatica
• Una necessaria premessa …
Il rapporto tra fede e politica è stato uno dei nodi intorno al quale si è sviluppato il pensiero cristiano; fin dalle origini le chiese hanno dovuto interrogarsi se e come fosse possibile per il cristiano interessarsi alla gestione della cosa pubblica. Che Gesù non abbia avuto propositi di riforma politica credo che sia un dato pacificamente acquisito sul piano dell’esegesi e della teologia neotestamentaria; che Gesù abbia espresso delle idee sul potere politico in quanto struttura mondana mi pare altrettanto incontestabile. L’espressione “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” è stata variamente interpretata, ma da qualche scuola esegetica è stata assunta tra quelle che hanno incoraggiato un lettura ‘borghese’ del vangelo; vale a dire che, accostata ad altri testi riferiti all’autorità costituita, indurrebbe ad una soggezione non condivisibile perché tesa a garantire lo status quo, venendo meno alla vocazione critica del credente (si pensi a Romani 13, 1-7 e 1 Pietro 2,13-14). A me pare, invece, che questa affermazione di Gesù più che a legittimare l’esistente tenda a segnare un confine netto tra ciò che si deve a Dio e ciò che si deve ad un potere costituito; un confine che in caso di conflitto non si offusca, ma è in grado di suggerire immediatamente da che parte stare e quale sia la priorità come la comunità post pasquale sperimentò (Atti 4,19; 5,29). Il potere di Cesare e quello di Dio non sono sullo stesso piano e sono nettamente separati; e si tratta di una separazione che induce l’idea della provvisorietà. L’agire cristiano deve riscoprire perciò il suo legame con la cristologia senza il quale rimane oscuro persino il significato dell’incarnazione. Nella storia il credente agisce non solo con la responsabilità, ma prima di questa si pone il problema della fedeltà e dell’ubbidienza a Gesù così come è testimoniato nelle Scritture. Gesù è un modello di azione sociale e politica per i credenti ed è quindi normativo. Il cristiano non è cittadino del mondo, ma pellegrino; tuttavia non può evitare di gestire entrambi le condizioni facendole interagire. La consapevolezza della condizione deve indurre una capacità di relativizzazione circa la capacità della Politica in quanto tale di garantire la giustizia, il bene e la felicità. In quanto pellegrino il cristiano cerca il bene della città dove si ferma e osserva le sue leggi, ma in quanto credente è cittadino di un regno che non è di questo mondo. Ora, è precisamente su questo punto che si gioca la comprensione e anche la possibilità concreta di un corretto rapporto che il credente in Cristo e la chiesa, in quanto comunità di credenti in Cristo, possono instaurare con la società degli uomini; in qualche misura la domanda è: in che cosa consiste il regno di Dio visto che Gesù è venuto a predicare quel regno? E’ innegabile che dall’immagine che abbiamo di quel regno dipende il nostro rapporto con la società e il modo con cui lo realizziamo; e sappiamo bene che le definizioni non sono state univoche, né sempre convincenti. Anzi, certe identificazioni tra regno di Dio e Chiesa oppure tra Ecclesia e Societas, per esempio, hanno prodotto nefaste conseguenze. Non si può negare, tuttavia, che vi siano progetti politici ispirati a principi vicini alle istanze dell’evangelo; gli indicatori di questa prossimità sono senz’altro dati dall’ampiezza della dimensione di democraticità che propongono. Uguaglianza, giustizia, libertà sono le parole d’ordine dei progetti politici accettabili; ma i sistemi d’autorità e le istituzioni in che rapporto stanno con questi ideali? E l’idea stessa di democrazia che ha nell’espressione della volontà della maggioranza la sua ragion d’essere fino a che punto contiene la garanzia per realizzare gli ideali? Rispetto a questi limiti la predicazione del regno di Dio è capace di indicare traguardi ulteriori e perciò è necessariamente critica. Gesù potrebbe anche oggi dire, parafrasando, “date allo stato democratico ciò che è suo, ma a Dio ciò che è di Dio”; perciò la questione rimane e costituisce allo stesso tempo la difficoltà e la speranza del credente. In questo solco sta anche la prospettiva carismatica del rapporto tra fede e politica a cui si tenta di fare riferimento in questo articolo.
• … e qualche chiarimento semantico
Vi è un dato da tener presente relativamente all’uso dell’espressione ‘movimento carismatico’; a livello internazionale, infatti, con questo termine si indica un movimento che nasce negli anni Sessanta del Novecento con la registrazione di esperienze pentecostali e carismatiche nella chiesa episcopale americana (con il coinvolgimento di personaggi influenti come il vescovo Dennis Bennet) nella chiesa luterana (con il pastore Larry Christenson) e in alcune frange della chiesa cattolica degli USA (con il coinvolgimento dell’università Duquesne di Pittsburgh). Si tratta, quindi, di un movimento trasversale nato dal contatto con il mondo pentecostale, ma che ha seguito poi vie proprie. In Italia, invece, con questa espressione ci si riferisce soprattutto al movimento interno alla chiesa cattolica che ufficialmente oggi è denominato ‘Rinnovamento nello Spirito’ e che con i movimenti pentecostali non ha alcun rapporto. Nel proporre la chiave di lettura del rapporto fede e politica mi riferirò essenzialmente al significato che l’espressione ‘movimenti pentecostali e carismatici’ ha nel panorama internazionale e nella relativa letteratura che se ne occupa dove sempre più spesso con tale definizione si distingue un’area all’interno del mondo protestante divenuta numericamente la più rilevante. L’altro dato riguarda l’uso del termine ‘carismatico’; qui, a differenza del linguaggio sociologico, viene usato con una connotazione che non corrisponde alla ben nota categorizzazione operata da Max Weber secondo la quale il càrisma è una forma di dominio (da cui deriva l’espressione ‘capo carismatico’) esercitato in un determinato contesto per indiscusso prestigio. Ciò avviene, nell’ipotesi weberiana, perché si vuole dare legittimità al dominio mediante il richiamo al carisma che egli stesso si attribuisce. Viene operata così una riduzione sociopolitica di un concetto teologico che non ha riscontri immediati nelle comunità religiose di tipo carismatico le quali, nella tradizione cristiana, sarebbe più corretto definire ‘pneumocarismatiche’. Qui, invece, lo si usa nella sua dimensione teologico/comunitaria con precisi riferimenti ai testi del Nuovo Testamento; pertanto, esso rappresenta una categoria interpretativa di quel particolare atteggiamento religioso in cui l’azione e la grazia divina sono intese come caratterizzate da una capacità oggettiva (quindi storicamente indagabile) e non riconducibili solo ai vissuti interiori e soggettivi. In questa accezione il termine chàrisma indica un ‘dono personale’ per indicare l’efficacia della grazia divina (come indica la radice chàris) e l’azione dello Spirito nella diversificazione individuale; questo comporta che nella comunità ognuno deve sentirsi investito di questa possibilità che parte da un’intima vocazione per poi diventare sempre più una consapevolezza manifesta. Ciò significa che ognuno ha il suo compito, la sua funzione: nessuno possiede un dono, ma tutti/tutte possono svolgere una funzione data come manifestazione (fanèrosis) dello Spirito. Da questa consapevolezza si parte per capire che il fine dell’azione dello Spirito attraverso la funzione carismatica è la comune edificazione e perciò bisogna agire di conseguenza. Insomma, l’esercizio di un carisma comporta il mettersi al servizio degli altri e non certo l’instaurazione di una qualche forma di dominio sugli altri. Grazie a questa necessaria chiarificazione concettuale è possibile operare anche una distinzione attraverso la quale segnalare la distanza che passa tra sentirsi investiti da una missione divina che non di rado sconfina nell’esaltazione e nel paradosso con risvolti autoritari nefasti (gli uomini della Provvidenza!), e la valorizzazione individuale quale elemento qualificante della partecipazione democratica; una dimensione carismatica della fede per definizione non può che andare nella seconda direzione.
• Una spiritualità ‘politica’?
Da questa posizione teologica deriva il peculiare modo di essere chiesa nei movimenti pentecostali e carismatici; la loro concezione della chiesa è sempre stata condizionata dal dibattito sul senso e la portata delle strutture ecclesiastiche che ne sorreggono la vita materiale. Il pentecostalesimo, come tutti i movimenti di tipo carismatico, nasce con una forte carica antidenominazionale che aveva la sua ragion d’essere nel sospetto che le chiese a causa della loro istituzionalizzazione non consentivano allo Spirito di agire liberamente, ma frenavano la sua azione opponendo la rigidità organizzativa; infatti, non tutte le denominazioni pentecostali delle origini hanno nelle loro confessioni di fede un articolo che riguarda la chiesa e quelle che lo prevedono sono molto sfumate nella formulazione preferendo una terminologia di carattere ‘spirituale’, affermando che l’unica Chiesa di Cristo è formata da tutti quelli che sono rigenerati in Gesù attraverso il pentimento e la fede. Tuttavia, a ben guardare, anche questa generica affermazione rivela precisi contenuti ecclesiologici: la chiesa di Cristo è una e quindi si muove attraverso le chiese invisibilmente (tanto che per indicare la chiesa locale spesso viene preferito il termine ‘assemblea’); i suoi membri devono essere ‘nati di nuovo’, capaci di pentimento e di confessione di fede. Questa relativizzazione degli aspetti istituzionali (che costituisce al tempo stesso il tallone d’Achille, ma anche il volano dinamico e il punto di forza di questo tipo di spiritualità) è già esso stesso un atto politico. La chiesa in genere, nella sua dimensione sociale, è una formazione ‘politica’ perché diventa un soggetto che intende incidere nel contesto nel quale opera; così interagisce con esso e in questa dinamica il modo di essere chiesa non rappresenta un aspetto secondario, anzi ne esalta l’intenzionalità ‘politica’ nel momento in cui si differenzia da altre forme di chiesa. La diluizione degli assetti istituzionali diventa un progetto attraverso il quale si immagina per il cristianesimo una nuova opportunità che gli permette di rimeditare il nucleo stesso del messaggio cristiano ravvivando la fede. Ma proprio questo atteggiamento ha fatto sì che la spiritualità carismatica nel corso dei secoli sia stata oggetto di intolleranza e spesso di persecuzione. Probabilmente il suo costante richiamo alla ‘guida dello Spirito’ ha ingenerato dubbi e sospetti riguardo una reale volontà di riconoscere le autorità costituite. L’accanimento contro gli anabattisti nel XVI secolo trova una delle sue ragioni in questa dinamica; è noto, infatti, che il dissenso di questo movimento era di natura essenzialmente ecclesiologica, ma la giustificazione della sua persecuzione era di natura politica giacché quasi sempre l’accusa che gli veniva rivolta era di ‘sedizione’, a riprova del fatto che avere una determinata idea di chiesa può essere di per se una presa di posizione politica. I pentecostali sono sempre stati molto rispettosi delle istituzioni pubbliche dei Paesi nei quali hanno visto nascere e crescere le loro comunità, ma non sempre da queste sono state ripagate con lo stesso rispetto; spesso hanno dovuto lottare per esercitare la loro libertà religiosa e non di rado hanno dovuto subire vere e proprie persecuzioni e, naturalmente, messi alle strette tra il difendere le proprie convinzioni e l’osservanza di divieti volti a cancellare la loro libertà di coscienza e di fede, non hanno mai avuto esitazione a scegliere la seconda anche quando questa scelta gli è costato molto. Tale situazione è stata affrontata all’inizio del movimento e si è pressoché ripetuta invariabilmente nel corso dei decenni in tutti i luoghi dove il pentecostalesimo è arrivato senza distinzione tra il ricco e progredito occidente sul piano giuridico o i paesi del cosiddetto terzo o quarto mondo. A partire dalla seconda metà del Novecento molte cose sono cambiate o per il grado di organizzazione sociale ed istituzionale (soprattutto in area anglo-americana e nord europea) o per la mirabolante crescita numerica che in alcuni paesi dell’America latina e dell’Africa ha trasformato il pentecostalesimo da piccolo gruppo religioso marginale a fenomeno di massa; il che comporta anche qualche problema di interpretazione del fenomeno stesso che al proprio interno si presenta con posizioni plurali e spesso dialettiche tra di loro. Il confronto con le condizioni socio-economiche dei paesi latinoamericani e africani ha favorito già da alcuni decenni una maturazione complessiva delle chiavi di lettura teologiche del rapporto tra fede e politica nel mondo pentecostale che spesso si è materializzata in importanti prese di posizione come, ad esempio, la stesura del ‘Riverside Manifesto’; si tratta di un importante atto di protesta delle chiese ispaniche negli USA che lamenta la marginalizzazione sociale, culturale ed ecclesiale di queste chiese all’interno dell’establishment religioso americano. Una protesta che di fatto rappresentò una presa di posizione politica anche contro la politica economica e la politica estera perseguita in Sudamerica dall’amministrazione reaganiana. Tre dei membri fondatori di questo movimento erano pentecostali, incluso il presidente. La posizione politica dei movimenti pentecostali e carismatici spesso si estrinseca in azioni diverse da quelle che ci si potrebbe aspettare; in alcuni paesi, come il Brasile, si è ormai arrivati a confrontarsi con la gestione del potere e le conseguenze di questo confronto sono in via di svolgimento. Sarà interessante capire come si svilupperà il rapporto tra la pattuglia di parlamentari che essi hanno inviato in parlamento e le istituzioni; come sarà utile capire in che modo le chiese valuteranno i necessari accomodamenti e i compromessi che la gestione politica dei rapporti richiede. Ma in genere la conquista del potere non sembra essere la priorità dell’impegno politico di questi movimenti; più spesso il loro impegno si profonde nella realizzazione di azioni sociali che puntano a cambiare le condizioni di vita e a combattere forme di ingiustizia profonde. Da questo punto di vista risulta molto interessante lo studio delle differenze e delle convergenze che in America latina si sono intrecciate tra la visione pentecostale della lotta alla povertà e all’ingiustizia sociale e la visione delle comunità cattoliche di base nate sulla scia della teologia della liberazione. Alcuni studiosi pentecostali pensano che nel pensiero pentecostale delle origini vi siano le basi per l’elaborazione di una ‘teologia pentecostale della liberazione’ e che vi siano diverse possibilità di contatto tra questa e quella propriamente detta; ma, come è noto, la teologia della liberazione in sud America si sviluppava quasi contemporaneamente al fenomeno di espansione del pentecostalesimo e i suoi esponenti non furono molto teneri nei confronti di questo. Solo in anni recenti c’è stato un ripensamento e una valorizzazione del modo in cui i pentecostali hanno risposto ai problemi che venivano posti. Spesso la posizione politica dei gruppi sociali passa attraverso l’impegno sociale; ma, come per l’impegno politico anche per quello sociale stabilire in cosa consista non è cosa facile, senza contare il fatto che spesso le due sfere si sovrappongono. Generalmente l’impegno sociale è riferito ad attività organizzate sul territorio finalizzate a soddisfare bisogni largamente avvertiti; se e in quale misura le chiese debbano sviluppare queste attività è stata cosa discussa sempre con una certa animosità in tutte le chiese, soprattutto se nell’orizzonte dell’impegno sociale entra non solo lo scopo solidaristico, ma quello culturale, quello politico e quello della giustizia sociale. I pentecostali sono stati criticati in passato per non aver prestato molta attenzione alle questioni sociali; rimane da chiarire se il loro innegabile impegno nell’evangelizzazione vissuto come attività primaria degli individui e delle comunità sia o meno una forma di impegno sociale per gli evidenti fattori di trasformazione e di riscatto che esso comprende e valorizza. Ovviamente se si misura il loro impegno sociale attraverso prese di posizioni su temi specifici e spesso molto ideologizzati quali aborto, divorzio, omosessualità, eutanasia oppure l’impegno a cambiare gli status quo politici, allora si può affermare senza problemi che il loro impegno è stato molto ridotto se non del tutto assente. Ma questo atteggiamento è facilmente comprensibile in un orizzonte di fede che poneva un dilemma in quanto erano costretti a vivere in un mondo che avrebbero dovuto influenzare e da cui contemporaneamente avevano giurato di fuggire in virtù della loro esperienza di conversione. D’altra parte, il loro atteggiamento non è stato così lontano dai modelli che emergono dal NT; la chiesa del I secolo non ha mai avviato dei dibattiti per introdurre dei cambiamenti nella società, al contrario i credenti furono incoraggiati a sottomettersi alle autorità dell’epoca e non si preoccuparono dei problemi sociali delle loro comunità secolari. Puntarono a cambiare i cuori del loro prossimo non credente. Gesù non era certo un agitatore sociale e Paolo, per esempio, era interessato a fondare delle comunità cristiane e non a cristianizzare le società. I primi credenti avevano la funzione dei gruppi di conversione e cercavano di attirare i non credenti nelle proprie comunità. Più che cercare di imporre o incoraggiare la società secolare ad adottare la propria etica, essi erano concentrati nel fare discepoli che avrebbero adottato l’etica cristiana. Tuttavia, esiste una via pentecostale e carismatica all’impegno sociale i cui risvolti politici non è difficile cogliere, ma che non sempre segue i canoni tradizionali e non sempre si sviluppa con un maturo grado di consapevolezza; ne è prova il coinvolgimento in importanti azioni sociali che, già in anni lontani, hanno visto protagonisti i pionieri del pentecostalesimo. Personaggi di primo piano come Charles Parham, William Seymour, Aimee Semple McPherson si distinsero non solo per l’insistenza sulla necessità di una dimensione carismatica della chiesa a livello teologico; essi consideravano i loro programmi di assistenza per orfani, anziani, poveri, donne costrette a prostituirsi, la conseguenza diretta della loro esperienza di effusione dello Spirito. Inoltre, consideravano l’esperienza carismatica il viatico per immaginare una chiesa che non facesse alcuna distinzione di etnia, razza e appartenenza sociale. E se si considera che tutto ciò avvenne all’inizio del XX secolo e su una base dichiaratamente pacifista per quanto riguarda i rapporti tra gli Stati, è facile dedurre la portata ‘politica’ di una spiritualità che, a dispetto anche di molti che la professano, è tutt’altro che disinteressata alle ‘cose del mondo’. Più recentemente si deve menzionare l’opera di David Wilkerson che lanciò il primo vasto programma di recupero per giovani dalla tossicodipendenza noto in tutto il mondo come Teen Challege. Oggi in America latina e in Africa dai pentecostali, sulla base di un concreto impegno nel miglioramento delle condizioni sociali nelle quali le chiese si trovano ad operare, è stato teorizzato il concetto di un ministero cristiano ‘olistico’, rivolto cioè non solo alla predicazione, ma anche all’attenzione per le condizioni di vita. Attenti osservatori pensano che alcuni dei più importanti programmi di innovazione sociale in quelle parti del mondo siano dovuti proprio alla impressionante crescita delle chiese pentecostali che spesso danno vita ad organizzazioni paraecclesiali con le quali portano avanti i loro programmi sociali in modo ‘laico’ (si direbbe in occidente). Di notevole interesse è anche il modo in cui i pentecostali si sono confrontati con il marxismo nei paesi a guida comunista; anche in questo caso imparando dal loro impegno sul campo a fare importanti distinzioni tra posizioni ideologiche pregiudiziali e valori legittimi di rivendicazioni sociali hanno tracciato una via proprio di impegno e di lettura delle condizioni socioeconomiche dei paesi interessati da questo orientamento politico. Senza dimenticare che gran parte dei membri delle loro chiese, come in tante altre parti del mondo, appartengono alle classi lavoratrici per cui è facile immaginare in che direzione è orientato il loro voto.
• E in Italia?
La storia del pentecostalesimo italiano è sostanzialmente ancora da scrivere, soprattutto per certe modalità di rapporto che ha stabilito con alcune questioni tra cui quella di cui ci stiamo occupando. Tuttavia, non è difficile tratteggiare quanto meno una traiettoria che possa offrire qualche chiave di lettura. Come è noto le chiese pentecostali in Italia ebbero un confronto abbastanza duro con il governo fascista che, nonostante avesse applicato anche a loro le disposizioni della legge sui culti ammessi del 1929, fece un clamoroso passo indietro nel 1935 con una circolare ministeriale firmata dall’allora sottosegretario Buffarini Guidi grazie alla quale il culto pentecostale venne considerato fuorilegge e le chiese vennero chiuse; questa circolare poneva a giustificazione della propria ordinanza motivi di carattere razziale prima che con le ‘leggi fascistissime’ fossero approvate le leggi razziali contro gli Ebrei (1938); infatti, sosteneva che le chiese pentecostali svolgevano pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità psichica e fisica della razza”. Con questo atto si aprì per i pentecostali un autentico periodo di persecuzione durato fino al 1943. Nel corso di quegli anni i provvedimenti antipentecostali furono reiterati in modo sempre più insistente e questa circolare provocò danni che andarono ben oltre il 1943 fin quando fu abolita nel 1955. I pentecostali non si fecero spaventare più di tanto e perciò non sorprende il fatto che usciranno da questo periodo quasi raddoppiati di numero avendo messo in campo una resistenza passiva non violenta basata unicamente sulla propria spiritualità e senza poter contare su alcuna forma di organizzazione interna; cosa che per un verso costituiva un elemento di debolezza, ma per altre ragioni diventava un notevole puntello perché ostacolava non poco la polizia nella sua azione di controllo e repressione di chiese che non avevano un vertice. In questo quadro va inserito l’atteggiamento pacifista di molti pentecostali che rincarava la dose di avversità da parte del regime. Questa esperienza spiega perché, all’indomani dello sbarco in Sicilia degli alleati (quindi a guerra non ancora finita), le chiese che riescono a ritrovarsi per una ripresa dei rapporti dopo quindici anni di completo isolamento inseriscono, tra le varie disposizioni di un Convegno svoltosi nel 1944 a Raffadali in provincia di Agrigento, una presa di posizione sull’impegno partitico: “perché è nostro dovere arguire il male, non in seno ai partiti, ma alla luce della parola di Dio”. Tale atteggiamento ha accompagnato i pentecostali fino ad oggi; è facile capire che la professione di a-partitismo non significa atteggiamento a-politico. Si afferma, infatti, che l’ingiustizia (il male) si deve combattere con la parola di Dio, vale a dire con l’annuncio dell’evangelo che trasforma le coscienze e non con lo schieramento ideologico; in linea con la teologia del risveglio si afferma che è il cambiamento dell’individuo che può trasformare la società, ma questo avviene per opera dell’evangelo. È esattamente quanto ancora oggi in tutto il mondo i movimenti pentecostali e carismatici credono e su questa base motivano la loro azione: aggiungendo che la predicazione dell’evangelo non è possibile senza l’opera dello Spirito santo. Nell’immediato dopoguerra il movimento pentecostale era attestato quasi tutto nel sud rurale e montano del Paese con appendici nelle periferie della grandi città del nord; i membri delle chiese erano in massima parte di estrazione contadina e artigiana e molti di loro emigravano all’estero o verso il nord. Qui le piccole chiese delle periferie urbane cominciarono svilupparsi grazie al fenomeno immigratorio interno con una composizione sociale di chiara impronta operaia. Walter Hollenweger, un attento osservatore straniero che proprio in quegli anni faceva ricerche in Italia, aveva documentato quale orientamento elettorale avessero i pentecostali che sembravano chiusi nelle loro chiese e disinteressati a quanto gli accadeva intorno. Forse anche per questo venivano percepiti come ‘protestanti’ e tacciati di comunismo secondo un cliché che toccava anche gli altri evangelici; paradossalmente questi ultimi ritenevano la spiritualità pentecostale di derivazione cattolica. Negli ultimi trent’anni si è venuto a delineare un quadro complesso e mutevole. I pentecostali sono molto aumentati di numero e rappresentano la componente evangelica maggioritaria un terzo della quale è costituito da immigrati; per il 70 % almeno sono concentrati nelle città con un significativo cambiamento rispetto alle origini. Il fenomeno di urbanizzazione ha cambiato significativamente anche la matrice socio-culturale che, semplificando, potremmo dire essere passata da contadina e operaia a piccolo-medio borghese con un progressivo innalzamento medio dell’istruzione. A ciò si deve aggiungere il non del tutto risolto problema dei rapporti con lo Stato. Il quadro normativo relativo all’esercizio della libertà religiosa generalmente li penalizza e lascia aperte questioni che si trascinano da decenni; e, sebbene alcune organizzazioni abbiano ottenuto i massimi riconoscimenti, i percorsi a cui lo Stato obbliga configgono con le convinzioni ecclesiologiche e questo provoca tensioni interne tra spinte aggregatrici funzionali ai riconoscimenti e affermazioni di principio di tipo massimalista in relazione alla separazione tra stato e chiese. Questo quadro si riflette anche sull’atteggiamento verso la politica che, visti i numeri, non può che essere pluralistico e aperto ad una scelta molto diversificata in termini elettorali; da alcuni anni diversi ambienti pentecostali lavorano alla creazione di una coscienza politica più marcata che punta verso identità partitiche e una pattuglia di pentecostali si cimenta con l’amministrazione della cosa pubblica negli enti locali. Su ciò si mantiene vivo un dibattito ed un confronto che passa attraverso varie occasioni e circostanze; non ultima l’ingresso in parlamento qualche anno fa, per la prima volta nella storia della Repubblica, di un pentecostale che fa presentire anche per i pentecostali del nostro Paese esperienze la cui consistenza e il cui significato potranno essere valutate solo nel tempo.
Pubblicato nel volume Chiesa e potere. Libertà evangelica, laicità e spazio pubblico, edito da Claudiana.